Competere è bello

Il mio intervento sul tema della Social Enterprise (o enterprise 2.0) presso la corporate university di un cliente,  mi ha consentito di portare avanti alcune riflessioni che voglio condividere.

Vengo teorizzando nell’ultimo periodo nei blog in cui scrivo, in particolare qui e qui, la rilevanza del codice dei fratelli nella costruzione delle nuove culture P2P. Devo alla lezione di Giancarlo Trentini e di Massimo Bellotto, l’adozione dei codici affettivi di Fornari come chiave di lettura simbolica attorno alla quale si sviluppano le culture organizzative.  L’adozione di modelli up down, che fanno riferimento a capi che gestiscono collaboratori adottando la cultura del comando e controllo, implicitamente è inscritta in un paradigma che legge la realtà attraverso relazioni verticali. Relazioni analoghe a quelle che si vivono nel contesto famigliare in cui come figli ci relazioniamo a nostro padre (che ci chiede performance e rispetto delle regole) oppure a nostra madre (che ci cura e ci dona affetto senza condizioni).

(segue)

Diseguaglianza, rituali e P2P

Considero questo saggio di Bawuens una finestra molto importante sui temi che vado studiando da alcuni anni, ovvero la cultura P2P. Bawuens citando Benckler, sostiene che il P2P è il terzo modo di produzione dopo la proprietà e la produzione attraverso contratti. Nell’età premoderna la cooperazione umana si fonda sulla forza militare ed economica. I giochi prevalenti sono di tipo win to loose. L’età del capitalismo invece si caratterizza per la ricerca di un equilibrio negli scambi. I lavoratori ad esempio sono portati a dare un contributo in ragione di uno salario ritenuto equo. Nell’età P2P sostiene l’autore si dà a vita ad uno scambio non equo, in cui a guadagnare non sono solo le parti ma anche la società. La passione, l’empatia, la generosità sono dimensioni che caratterizzano questi nuovi modelli cooperativi.

Richard Sennett

Ho trovato un collegamento molto interessante con il punto di vista di Sennett, sviluppato nel volume Rispetto (2004). Sennett sostiene che la società moderna ha cambiato l’approccio verso la diseguaglianza. Nelle società premoderne la diseguaglianza veniva trattata attraverso rituali. Poiché attraverso il rituale le persone apprendono modalità strutturate per stare insieme, socializzare, lavorare valorizzando e dando senso alle diversità. Un sistema di relazioni credibile e riconoscibile è un modo attravero il quale si riconosce la diversità e la si rispetta. La ritualità è modo attravero il quale si esprime il rispetto per l’altro. La riflessione di Sennet (pag 213 e segg.) riprende anche gli studi di Mauss sul dono. Nelle Isole Trobriand per i trobriandesi (che Mauss aveva studiato) il regalo è un modo attraverso il quale di stabilisce una relazione di reciprocità. Lo scambio di collane di conchiglie, regolato da una regolare attitudine a rifiutare il regalo e a cui il donatore risponde insistendo, costruisce relazioni che rassicurano gli individui. Il punto è che sono i doni non equi a costruire reciprocità. Ma allora per Mauss è il rituale attraverso doni non equi a stabilire una relazione tra diseguali, anziché portare gli individui ad allontanarsi.  Il rituale veicola il rispetto per l’altro. Il rituale avvicina persone distanti.

Dobbiamo concludere che le relazioni P2P, sono modalità di generazione di relazioni in quanto basate su scambi non equi. Infatti poiiché non esiste un mercato che valuta quanto vale ad esempio un commento al mio blog, è evidente che lo scambio tra me ed il lettore è per definizione non equo. Tuttavia abbiamo entrambi interesse a che questo scambio avvenga. E’ legittimo inoltre supporre che lo scambio sulle piattaforme di social network possa essere dettato da un rituale in cui ad esempio lettore decide di aderire per generare una reciprocità. Flaggare il post con “mi piace”, oppure mandare un commento anche generico , è un modo attraverso il quale due persone decidono di proseguire lo scambio in un contesto che viene avvertito come “non indifferente”.

Le considerazioni sui rituali mi riguardano anche personalmente. Nel mio processo di crescita ho messo in discussione molti rituali che ho ereditato dalla mia famiglia e che ho classificato da giovane, eredità di una concezione borghese e quindi svuotata di significati. Certo ne ho recuperato il senso nei vari persorsi introspettivi che ho attraversato in questi anni. Tuttavia l’analisi di Mauss, Sennett e la crescente cultura P2P, pongono di nuovo al centro queste “vecchie” modalità sociali.

Fratelli d’Italia

Se parliamo di organizzazioni, senza leader, o meglio senza capi, allora bisogna chiedersi che fine fanno i capi. Poiché è facile immaginare che organizzare risorse significa fare i conti con il potere, organizzazione e management sono cose procedono di pari passo. Ma noi sosteniamo in queste pagine che le strade possono divergere, dunque il problema è dove vanno a finire i capi, quelli che c’erano prima, all’inizio della storia. (segue)

Consumo ergo voto

E’ stata molto interessante la relazione di Gustavo Zagrebelsky presso la scuola della politica di Libertà e Giustizia a Pavia. Mi ha riportato alla memoria il tema  del consumo su cui lungamente ho lavorato alla fine degli anni 90 e nei primi 2000. Avevo appreso dalla lezione di Giovanni Siri il valore simbolico del processo di consumo. Ho imparato da allora riconoscere e far riconoscere ai miei allievi il significato di un atto che contiene in sè sempre una dimensione funzionale insieme ad una immateriale. Bisogno da un lato, ma anche desiderio. La società liberista ha incrementato i consumi al punto da farne una sintassi sociale ormai irrinunciabile, che ha caratterizzato la cultura del nostro tempo. A distanza di una decina d’anni ci troviamo oggi a fare i conti con un cittadino che è sempre meno un soggetto politico, quindi in grado di autodeterminarsi e collocarsi rispetto alle scelte fondamentali della sua vita. Questo cittadino è diventato un consumatore. Ormai abituato ad una modalità simbolica, il cittadino consuma formule politiche, illudendosi di conservare un grado ampio di libertà. Il consumo avvolge il nostro esistere, nella sua voglia insaziabile di ingerire oggetti, persone, relazioni, simboli, conoscenze. Ormai dotati di un tubo digerente formidabile, abbiamo appreso ad ingoiare quantità esorbitanti di stimoli, per poi evaquarli altrettanto velocemente. La rivoluzione dei social network amplifica questa tendenza e siamo, io per primo, sempre più in un flusso che ci intrattiene e allieta, sollevandoci dalla solitudine.

Dalla frequentazione della bella lezione di Siri, ho maturato in questi anni l’idea che la lezione freudiana sia da far evolvere. Alla nota richiesta delle condizioni che rendono possibile la salute mentale, il fondatore della psicoanalisi ebbe a rispondere che “una soddisfacente vita affettiva” ed “una vita professionale gratificante” sono i requisiti da perseseguire nella vita di ognuno di noi. Se Freud fosse vivo oggi probabilmente direbbe che esiste un altro requisito: una soddisfacente e continuativa possibilità di consumare. Poiché è evidente a tutti che esiste l’equazione “sono ciò che compro” che affianca “sono ciò che faccio (il mio lavoro )”, “sono chi amo”. Di solito in aula mi dicono “che tristezza!”.

Il consumo è impossessamento, assunzione di proprietà, di dominio. Il consumo è incorporazione simbolica di un oggetto dotato di poteri. Come i guerrieri tribali convinti che mangiando il cuore del nemico ne avrebbero assunto il coraggio, il cittadino consumatore tollera le angosce del presente mediante un’azione introiettiva. Siamo dunque tutti drogati, tanto bisognosi da allontarci dal presente, da aver bisogno di sostanze che alterano la nostra capacità di sentire il reale? Certo l’ultimo Pasolini ci aveva avvertito di quello che sarebbe successo, e la sua è diventata una profezia particolarmente azzeccata. Eppure non voglio nemmeno rimpiangere un mondo lontano non più di due generazioni da me (e che ho conosciuto attravero le parole di mio padre e dei miei nonni) in cui si moriva per parto e le vita media era 60 anni di età. E allora la soluzione è un futuro da inventare. Come sostiene Zagrebelsky nello sua relazione, si tratta di immaginare altre modalità, non necessariamente utilitaristiche di stare nel mondo. Le soluzioni non sono così lontane. Basterebbe leggere Luigino Bruni, oppure Leonardo Becchetti. Sembrerebbe una cosa di sinistra.

Sono un ladro

Chissà quante volte è successo. Magari non me ne sono nemmeno accorto. Di imitare, copiare, citare, senza essere consapevole, oppure, con colpa, di non avere verificato abbastanza le fonti. I miei amici mi dicono “stai sereno”, ma io no, proprio non ci riesco. (segue)

950 grammi di potere

950 grammi di potere, un concentrato di rabbia distillato in capsule di piombo, un simbolo dell’Ordine e della Verità. Lo abbiamo visto tutti e ci siamo schierati con i buoni, oppure con i cattivi. Ci siamo schierati senza potere o voler capire, affrettandoci a parlare di ritorno degli anni ’70. Ma oggi molto è cambiato. (segue)

La generazione assente

Ho pubblicato un post su Leaderlessorg. Per i lettori che lo desiderano…

La generazione assente

Il sapore della rivoluzione

Sono attento alle coincidenze come rivelatrici di trasformazioni possibili. Trasformazioni dal macro al micro. Per chi è capace, vuole e può coglierle.

La faccenda Wiki Leaks è straordinaria. Ho conosciuto il sito ed il suo carismatico fondatore un paio di anni fa attraverso un articolo dell’Internazionale. Si narrava la loro strategia di pubblicare tutto, senza verificarlo, contravvendendo il principio più elementare del giornalismo. Ma come abbiamo capito in queste giorni, quello non è giornalismo, ed è in gioco ora un grande principio che è autenticamente e come mai prima in discussione, che è la libertà informazione.

L’attesa spasmodica da un lato ed annoiata dall’altra del fatidico 14 dicembre, ci consegna l’immagine di un’Italia sclerotizzata, dentro ad un mondo che produce rivoluzioni. O meglio è la politica che è ferma, mentre il resto del Paese si arrangia e sopravvive, in attesa di non si sa bene di cosa. L’onda d’urto dei senza lavoro, onda che sta arrivando, romperà il sogno del dopoguerra e porterà dolore, ma anche nuova solidarietà. L’abulia fine 80 fino a metà degli anni 90 diventeranno un pallido ricordo.

A me capita di vedere sempre di più nelle aziende che frequento come consulente, una frenesia ansiosa verso il cambiamento. La crisi venata di speranza e talvolta di disperazione rincorre nuovi miti e prospettive di sviluppo che si spera salvifiche. Da un lato si taglia via ciò che è inutile e non produce valore. Si è un po’ più spietati anche verso le persone, perché non ci si può permette di sprecare risorse. Dall’altro c’è più squadra, gruppo, sistema, perché ci si dà un mano, e si è compreso che c’è bisogno del contributo di tutti.

Questa situazione apre una prospettiva di ricerca del tutto nuova. Si era detto negli ultimi anni, con il liquefarsi e frammentarsi delle stretture organizzative, che l’azienda non è più in grado di svolgere quel ruolo difensivo dalle ansie profonde, che al contrario svolgeva l’azienda dell’età industriale. Dove vanno finire quelle ansie non più contenute dal ruolo e dalla gerarchia? Ovviamente in giro, liberamente orientate ad inquinare il clima e i sentimenti organizzativi, a generare paranoie, fughe, paure, invidie. Faccio notare al lettore quanto è cresciuto il disagio in azienda in questi anni. Quanto ora si sta peggio in azienda rispetto a 5,10 anni fa?  E’ la crisi? Da un lato sì ma il disagio è aumentato molto prima, ed anzi la crisi ponendo il tema della sopravvivenza, ha molto limitato i danni. Il punto è che il lavoro oggi è assai poco sopportabile e la maggior parte vorrebbe cambiare persino vita  (vedi il successo di Vieniviaconme, che interecetta nitidamente un sentimento collettivo).

Elliot Jaques

Bene quello che secondo me sta accadendo è che ci sono molti nuovi meccanismi difensivi, che contengono quelle ansie. Il fenomeno dei social network (facebook, etc.) eè comprensibile anche grazie a questo. Una mia cara amica di cultura elevata che lavora in un’organizzazione pubblica clientelare, lottizzata e psicotica, impiega un parte del suo tempo libero a chattare su facebook con i colleghi dell’ufficio (a quanto mi dice dopo l’orario di lavoro). Conosco moltissimi esempi di questo tipo. Si stanno creando sempre di più comunità che sostituiscono quelle azienadali. Comunità in cui è possible ritagliarsi dei ruoli, ci sono regole, ci sono figure istituzionali, ci sono leadership e membership. Comunità in cui soprattutto  ci sono persone che hanno voglia di starci, per il fatto che lo scopo è in rete (dove esiste la gratuità) sempre il proprio scopo.

Il fenomeno ha qualche timido riscontro nelle organizzazioni dove sembrano emergere qua e là delle modalità 2.0. Aziende in cui la base (i dipendenti o i clienti) contribuisce nella definizione del compito, attraverso modalità non gerarchiche. Si creano comunità, relazioni trasversali, rapporti tra pari in logica network. Di questo mi sto occupando da tempo e come consulente seguo un paio di aziende che stanno lavorando su questi aspetti.

Io credo che siamo maturi per aggiornare l’assunto di Jaques sulle imprese come meccanismi di difesa dalle ansie primarie. Non sono più le imprese questi meccanismi di difesa. A difenderci dalle ansie c’è qualcosaltro che stiamo costruendo.

Questa è la rivoluzione del XXI secolo.

L’età dell’incertezza

Una singolare esperienza formativa il ForFilmFest promosso da Aif, a Bologna anche quest’anno (il quarto) sul finire di novembre.  Singolare per il convergere di una molteplicità di eventi che concorrono a definire un’interpretazione rotonda dello scenario futuro.

L’incontro con l’altro, questo il tema della rassegna 2010, rappresentato attraverso alcune pellicole e le parole di alcuni relatori, è stato narrato attraverso i cambiamenti che l’incontro con l’altro determina. Il cambiamento, questo sì il segno distintivo di un festival, che presentava le emozioni di un mondo (la formazione/consulenza alle aziende ed alle istituzioni) in profondo imbarazzo culturale ed economico. I posti in sala desolatamente vuoti, pur nella ricchezza della proposta di contenuti evolutivi delle edizioni di successo degli anni passati, hanno testimoniato uno smarrimento e forse qualcosa di più. I film che abbiamo visto la prima mattina Lo scambista (Stelling, 1986) e La casa della gioia (Davies, 2000), scelti dai curatori del festival, ci hanno narrato cambiamenti, che si concludono con la morte del protagonista, oppure L’amore buio (Capuano, 2010) con l’enigmatica ed incompiuta dialettica tra due giovani in cerca di se nell’incontro con l’alterità. Cambiamenti che solo in minima parte propongono il tema della progettualità, retrocedendo nella necessità di affermare dimensioni primarie come l’amore, la dignità, l’identità dei protagonisti. La Cina ha attraversato la tre giorni: nel laboratorio di apertura con il regista Sergio Basso, nelle parole di Marianella Sclavi e nel bel film di Amerio (2006) La stella che non c’è. La Cina rappresenta per noi non solo l’altro inconoscibile e inavvicinabile, ma anche l’altro luogo, ovvero l’altrove. Si tratta del luogo lontano dalla terra madre, in cui la cultura più che mai diverge dalla nostra. Il luogo che è più lontano da casa nostra. Ma allora questo è un simbolo di quel tema dello Spazio Intermedio (Vitale, 2005), che rappresenta il luogo perpetuo del nostro peregrinare, condannato a non avere mai fine. Il luogo che chiede di abbandonare la fiducia in un esito, che ci chiede di pensare al nostro viaggio come un abbandonare ciò che è famigliare, per non accedere mai ad un nuovo luogo. Insomma una metafora dell’incertezza che attraversiamo. La stessa incertezza narrata con sapiente oculatezza da Ugo Morelli autore del bel volume Incertezza e organizzazione. Scienze cognitive e crisi della retorica manageriale (2009), premiato da AIF come libro dell’anno. Come affrontare questa incertezza, quali strumenti abbiamo per calmare la nostra ansia e rassicurarci? Riusciranno gli imprenditori, alfieri schumpeteriani delle società economica (che dopo tutto è l’eredità del ventesimo secolo) ad essere i “leader del futuro”? La docufiction Grandi speranze (Parenti, D’Anolfi, 2009), ha acceso finalmente in una sala fino a quel punto preda di depressione e acquiescenza. “Dégoûtant” – disgustosi – sono stati definiti da una giovane partecipante, i 3 giovani imprenditori protagonisti del video e sull’allineamento o meno a questo giudizio la sala si è spaccata. In tutti vi è stata la consapevolezza che se il futuro del nostro pese è nelle mani di questi simpatici ed un po’ rozzi personaggi, non andremo molto lontani. Ma allora significa che dobbiamo rimboccarci le maniche? Sì è questo il punto. Io sono uscito da questo evento con l’idea che è davvero finita un’era e che adesso giochiamo un gioco mai visto prima. Qualche ispirazione? Il richiamo dell’antropologo Marco Aime al tema della multidentità, indica la prospettiva di un mondo nuovo in cui sarà necessaria una maggiore capacità di contenimento e di tolleranza dell’ambiguità per sostenere le diverse dimensioni del sé. Mi sembra che si stia realizzando quella profezia dell’ultimo Jung, ovvero dell’avvento dell’età dell’acquario. Essa rappresenterà il superamento del principio del due (e quindi la sostanziale spinta alla unità che la dialettica comporta), a favore di un concezione più complessa del reale, all’insegna della molteplicità.

Spazio Intermedio

Lo spazio intermedio è un tempo senza storia. Una costellazione di frammenti senza parabole, orfani di una causa e di un destino. Ho compreso questo concetto leggendo Archetti, che riporta alla vecchia equazione tempo=spazio. Anche gli antichi credevano al tempo come frammento: lo chiamavano Hora. Ma mi sorprende, e un po’ mi angoscia, il prevalere ossessivo oggi di questa dimensione. Ma forse è un male di questo paese  che chiede (e si chiede) “Vieniviaconme”. Oppure sono io che sto cercando una poetica, che dia un senso a questo mondo nuovo.